1. Il caso
L’attore agisce contro una nota banca popolare assumendo di aver acquistato 660 azioni della banca stessa nel corso del 2009 dietro insistente suggerimento dell’impiegato che le rappresentava detto strumento finanziario come sicuro e facilmente liquidabile. Al momento dell’acquisto non era stato consegnato alcun documento.
Nel 2014 l’attore aveva chiesto di poter vendere le azioni ma la banca gli comunicava di essere impossibilitata al riacquisto, asserendo che per l’utilizzo del “fondo acquisto azioni proprie” nel corso del 2014 fosse diventata obbligatoria l’autorizzazione dell’autorità di vigilanza.
L’attore avanzava, in via principale, domanda di declaratoria di nullità del contratto quadro sottostante e degli ordini di acquisto con conseguente restituzione di quanto investito.
In via subordinata lamentava l’inadempimento dell’obbligo di agire con perizia e diligenza poiché il prezzo delle azioni era artatamente sopravvalutato, l’inosservanza degli obblighi informativi circa l’illiquidità dei titoli, la mancata valutazione dell’adeguatezza e dell’appropriatezza degli ordini di acquisto, la violazione dell’art. 49 reg. Consob 16190/2007 in quanto la banca non avrebbe rispettato l’ordine temporale nella esecuzione degli ordini di vendita.
2. Le questioni
La prima questione affrontata dal Tribunale di Verona concerne la declaratoria di nullità del contratto quadro per difetto di forma scritta. La Banca convenuta aveva prodotto copia “per la banca” del contratto di negoziazione titoli (contratto quadro) recante la sola firma dell’attore. Nel corso del processo, un teste, funzionario della banca, aveva dichiarato di aver consegnato l’originale del contratto sottoscritto dal direttore. Correttamente il giudice veronese ritiene inammissibile che una prova testimoniale e presuntiva possa supplire la mancanza di un contratto la cui forma sia prevista ad substantiam dalla legge. Ritiene però che costituiscano evidenze documentali tali da provare l’adesione della banca all’accordo, la sottoscrizione (sia pure a fini di autentica) da parte dell’istituto di credito della domanda di ammissione a socio e un questionario MIFID recante la firma del direttore della filiale. Entrambi questi documenti, sottoscritti dalla banca, postulerebbero l’esistenza del contratto quadro. La soluzione appare un po’ forzata in quanto la domanda di ammissione a socio non postula affatto l’esistenza di un valido contratto quadro di negoziazione titoli e la firma del questionario MIFID apposta dal direttore della filiale non implica l’adesione della banca al contratto quadro. Del resto anche la più autorevole dottrina si esprime nel senso dell’esigenza che le determinazioni contrattuali risultino direttamente dall’atto formale escludendo il rinvio a determinazioni estranee al documento (Santoro-Passarelli, “Dottrine generali del diritto civile”, 208). Come autorevolmente sostenuto non è ammissibile il rinvio da parte di un contratto al contenuto di altri contratti o altri documenti, infatti “qui il rinvio incontra il limite della preclusione di dichiarazioni contrattuali prive della forma dovuta. Il documento non può quindi far proprio un altro documento che non sia sottoscritto dalle parti. E’ inammissibile, così, il rinvio ad un allegato o il rinvio al contenuto di un documento redatto e firmato da una sola parte.” (Bianca, “Il contratto” in “Diritto Civile”, 2000, 282). A perfezionare il contratto non basta, invece, la semplice esecuzione del contratto né una dichiarazione probatoria con la quale la parte riconosce l’avvenuta stipulazione (Bianca, “Il contratto” in “Diritto Civile”, 2000, 288).
La seconda serie di questioni affrontate dal giudice attengono una serie di violazione della Banca quale emittente e non quale intermediaria. In particolare si contesta il criterio di determinazione del valore delle azioni e il mancato riacquisto delle azioni. Il giudice veronese ritiene tali doglianze palesemente incoerenti rispetto alla complessiva prospettazione attorea che si fondava espressamente sulla violazione della disciplina in tema di attività di intermediazione finanziaria. Tali conclusioni dipendono evidentemente dal modo in cui è stata prospettata la domanda in quanto la determinazione in sé del valore delle azioni può non aver rilievo in tema di intermediazione finanziaria ma, adempiuti i necessari oneri probatori, potrebbe avere rilievo in tema di vizi del consenso. Così come può non sussistere l’obbligo per la banca, come emittente, di riacquistare le proprie azioni, ma esiste senz’altro, per la banca quale intermediaria, il dovere di trattare le domande di vendita in ordine cronologico. A quanto però è dato di capire dalla sentenza, l’attore non avrebbe mai formalizzato un ordine di vendita, pertanto la violazione dell’art. 49 del Regolamento Intermediari Consob non si porrebbe.
La terza e principale questione che il Tribunale di Verona affronta inerisce agli obblighi informativi che la banca avrebbe dovuto dare all’azionista. In particolare l’attore si duole di non essere stato informato dell’illiquidità dei titoli. Trattandosi di azioni non quotate in un mercato regolamentato si trattava di investimento di difficile monetizzabilità e pertanto illiquido. A nulla vale il fatto che la Banca avesse consegnato al cliente l’ “informativa precontrattuale per la clientela sui servizi e attività di investimento” che recava la spiegazione su che cosa s’intendesse per strumento finanziario illiquido, in quanto la doglianza dell’attore non riguardava la conoscenza della categoria dei titoli illiquidi, ma che quello specifico titolo acquistato fosse ad essa riconducibile. Il giudice ha ritenuto violati tutti gli obblighi informativi previsti dalla comunicazione Consob del 2009 n. 9019104, che viene ritenuta un documento privo di diretta portata precettiva ma esplicativo degli obblighi di legge.
Il fatto che vi fosse un fondo per il riacquisto di azioni proprie non rendeva senz’altro il prodotto liquido in quanto non vi era alcun obbligo giuridico di riacquisto in capo all’emittente.
Di particolare interesse risulta inoltre la considerazione del giudice in punto di appropriatezza dell’operazione. Come noto, la valutazione di appropriatezza cui la banca è tenuta, prevista dagli art. 42 e 43 del Regolamento Intermediari Consob, prevede che venga valutata l’esperienza e la conoscenza dell’investitore. L’intermediario avrebbe dovuto valutare la conoscenza e l’esperienza del cliente in materia di investimento nello specifico settore o servizio richiesto. L’attore, nel questionario MIFID, aveva dichiarato di conoscere le azioni e di non conoscere tutta una serie di altri prodotti finanziari, tra i quali i derivati OTC. Il giudice veronese, con ragionamento assai convincente, ritiene che le azioni illiquide siano più assimilabili ai derivati OTC con riguardo al tipo di mercato in cui sono trattate e alla rischiosità dell’investimento, piuttosto che alle azioni quotate. Pertanto conclude che l’intermediario non abbia adeguatamente valutato la capacità del cliente di comprendere gli specifici profili di rischio connessi ai titoli acquistati.
Riconosciuta, dunque, la fondatezza della domanda, il giudice ravvisa una diretta incidenza causale delle condotte inadempienti della banca sulle operazioni di investimento compiute. Se fosse stata effettuata correttamente una valutazione di appropriatezza e se l’attore fosse stato edotto del rischio liquidità, questi non avrebbe acquistato quelle azioni.
Il giudice quindi condanna la banca al risarcimento del danno consistente nell’intero importo investito, oltre a interessi legali e rivalutazione, e spese legali.
3. I precedenti
Quella in commento è la prima sentenza riguardante il noto caso delle popolari venete. Non constano oggi altre sentenze sulla medesima vicenda. Invece, in tema di obblighi informativi dell’intermediario finanziario si registrano numerosi arresti della Cassazione negli ultimi anni. In particolare preme segnalare: “In tema di servizi di investimento, la banca intermediaria, prima di effettuare operazioni, ha l’obbligo di fornire all’investitore "un’informazione adeguata in concreto", tale cioè da soddisfare le specifiche esigenze del singolo rapporto, in relazione alle caratteristiche personali ed alla situazione finanziaria del cliente, e, a fronte di un’operazione non adeguata, può darvi corso soltanto a seguito di un ordine impartito per iscritto dall’investitore in cui sia fatto esplicito riferimento alle avvertenze ricevute.”(Cass. 9.2.2016, n. 2535).
E ancora “il giudice di merito, per assolvere l’intermediario finanziario dalla responsabilità conseguente alla violazione degli obblighi informativi previsti dalla legge, non può fermarsi alla constatazione della mancanza della prova della sua negligenza ovvero dell’inadempimento, ma deve accertare se sussista effettivamente la prova positiva della sua diligenza e dell’adempimento delle obbligazioni poste a suo carico. Pertanto, ai fini della risarcibilità del danno subito, è sufficiente che l’investitore alleghi da parte della banca o dell’intermediario finanziario l’inadempimento delle obbligazioni poste a loro carico e che provi che il pregiudizio lamentato consegua a siffatto inadempimento, incombendo, per contro, sull’intermediario l’onere di dimostrare d’aver rispettato i dettami di legge e di avere agito con la specifica diligenza richiesta.”(Cass. 9.2.2016, n. 2535).
4. Conclusioni
Tale sentenza si pone nel solco del cammino intrapreso dai giudici di merito e legittimità che tende a valorizzare l’importanza di un’informazione “in concreto” che non si risolva nel mero adempimento di obblighi formali ma che tuteli in modo pieno la parte debole di un rapporto, che per le caratteristiche di complessità e scarsa possibilità di accesso alle informazioni, si pone come esempio emblematico di rapporto asimmetrico.
Fonte:
ROMA - via dei Monti Parioli 34 - 00197 | |
Telefono: | +39 06 90258880 |
Fax: | +39 06 42004802 |
MILANO - Via Monte di Pietà 21 - 20121 | |
Telefono: | +39 02 30457051 |